In tempi di grande crisi riecheggiano quelle del passato, in particolare quella del ’29 nel Novecento e dunque i suoi analisti. Riaffiora quello grande del “Professore di Harward”, John Kenneth Galbraith, recentemente scomparso, ma, soprattutto, quello di John Maynard Keynes, il primo e più grande studioso proprio della crisi del ’29 che metteva in discussione tutta quanta l’economia “classica”, incapace e di leggerla e di interpretarla in quanto fondate in fine su un dato fideistico, quello dell’automatismo dell’economia per cui essa tendeva automaticamente al proprio riassetto. La crisi del ’29 dimostrò la falsità di questo assunto. L’analisi di questa crisi diede a Keynes le basi per il superamento dell’economia classica da cui egli si distanziò soprattutto in tre punti: a) la concezione della moneta non più semplicemente come mezzo di scambio, ma anche come fondo di valore; b) l’abbandono della legge di Say secondo la quale ogni offerta crea automaticamente la propria domanda per cui non può non esservi equilibrio tra domanda ed offerta; c) contro la concezione classica che ammetteva periodi di sottooccupazione, si afferma la rigidità dei salari verso il basso. Corretto così il sistema si tratta di riportarlo all’equilibrio e ciò spetta – al pari che in Marx – allo Stato. Allo Stato in particolare spetta di correggere e bilanciare gli andamenti dei cicli economici, mantenere la piena occupazione, stabilizzare e incrementare il reddito nazionale, eliminare gli squilibri territoriali, prevedere le esigenze delle generazioni future. In tutto ciò lo Stato non ha da temere un deficit, in quanto – è la tesi fondamentale del nostro – un deficit di bilancio sortisce necessariamente effetti espansionistici per il sistema economico anche se finanziato attraverso l’indebitamento dello Stato. Le tesi keynesiane – probabilmente ignorandone l’autore – trovarono una loro messa in pratica già pochissimi anni dopo il ’29, precisamente a partire dal ’33, in Germania da un personaggio che diverrà famigeratamente e terribilmente famoso: Adolf Hitler. In Germania la crisi ebbe ripercussioni molto più forti che altrove, basti ricordare che un francobollo da affrancatura semplice era giunto a “valere” 5 miliardi di marchi, ovvero il marco non valeva più assolutamente neppure la carta su cui lo si stampava. La politica e con essa l’economia, quelle di Weimar, erano inceppate da una sinistra che aveva poco meno del 50% dei voti ed una destra che solo con l’ausilio della minoranza hitleriana poteva bilanciarla. Il 27 febbraio del 1933, ad un mese dalla sua elezione a Cancelliere, Hitler fa incendiare il Reichstag attribuendone la responsabilità ai comunisti ed alle sinistre: è la scusa per per le proscrizioni e deportazioni di massa, è la nascita dei KZ, i Konzentrations-Lager, i campi di concentramento i quali accolgono anzitutto gli oppositori politici del regime, in massa, ad essi si aggiungeranno i delinquenti comuni, i sessualmente diversi, le vite indegne di essere vissute e gli ebrei. Questi campi sono certamente anche campi di prigionia, di tortura, di sperimentazione sull’uomo e molte altre atrocità ed infamie, ma essi sono anzitutto – e lo specifica assai bene la scritta sul cancello di Auschwitz – dei campi di lavoro: Arbeit macht Frei. Non si tratta di un senso figurato o di una scritta di scherno, la legge che vi impera è infatti una legge economica: se e fintantoché produci di più di ciò che costi vivi, appena costi di più ti si elimina. L’uomo è ridotto a totale funzione dell’economia. E l’economia tedesca risorge e risorge in pochissimo tempo, nel giro di di due – tre anni è di nuovo un gigante. Si finanzia sul deficit, come dice Keynes, e con ciò realizza progetti colossali, quali la rete autostradale, la rete ferroviaria con i treni più veloci del mondo, le colossali opere di urbanistica etc. e, soprattutto una produzione bellica inimmaginabile. Il lavoro per tutto questo è fornito dai milioni di deportati dei campi di concentramento che ogni mattina vengono trasportati dai campi ai cantieri di autostrade, ferrovie, alle fabbriche di armamenti etc, la sera sono ricondotti nei campi. Oggi è ancora così con milioni di extracomunitari e non: il keynesismo moderno. E questo è l’altro volto, quello oscuro, quello che sempre è nascosto, delle economie keynesiane.
francesco latteri scholten.